IL TRIBUNALE Nel processo penale a carico di Todaro Antonio e Ghibaudo Marilena, assistiti e difesi dall'avv. Federico Bagattini e Rodolfo Lema del foro di Firenze, imputati del reato previsto e punito dagli artt. 110, 81 cpv. cp. e 73 ed 80, secondo comma, d.P.R. n. 309 del 1990, sulla questione di illegittimita' costituzionale proposta dal difensore dell'art. 1, secondo comma del d.l. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito con legge 25 febbraio 2000, n. 35, per violazione degli artt. 3 della Costituzione, dell'art. 111, quarto comma della Costituzione e dell'art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, osserva quanto segue. Nel processo la prova d'accusa nei confronti degli imputati e' costituita dalla chiamata in correita' fatta da Magurno Francesco, nei cui confronti si e' proceduto separatamente, confermata da elementi di riscontro. Il Magurno si e' sempre avvalso della facolta' di non rispondere alle domande e alle contestazioni che gli sono state mosse, nel corso dell'intero processo, sia al tempo in cui era vigente l'art. 513 c.p.p. cosi' come sostituito dall'art. 1 della legge 7 agosto 1997, n. 267, e sia successivamente quando l'art. 513 c.p.p. e' stato parzialmente dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza della Corte costituzionale n. 361 del 2 novembre 1998. Da ultimo, in data 1o dicembre 1999, essendosi ancora una volta avvalso il Magurno della facolta' di non rispondere alle domande, il collegio, su richiesta del p.m., ha disposto la acquisizione del verbale delle dichiarazioni da lui rese nella fase delle indagini ed utilizzato per le contestazioni a norma dell'art. 500, commi 2-bis e 4 c.p.p. Trattandosi di verbali di dichiarazioni acquisite prima della entrata in vigore della legge che ha sostituito l'art. 111 della Costituzione la valutabilita' di quei verbali a fini di prova per la decisione e' regolata dall'art. 1, comma 2, del d.l. n. 2/2000 e legge n. 35/2000. Il p.m. ha concluso chiedendo la affermazione della penale responsabilita' degli imputati poiche' la chiamata di correita' contenuta nelle dichiarazioni predibattimentali sarebbe pienamente attendibile, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo, e sarebbe confermata da altri elementi di prova testimoniale e documentale, elementi di prova, quindi, assunti con modalita' diverse dalla assunzione della chiamata di correita'. Il difensore in via principale ha opposto le ragioni della asserita inattendibilita' delle dichiarazioni accusatorie del Magurno e la insufficienza degli elementi di riscontro; in via subordinata ha pero' prospettato la tesi della incostituzionalita' della disposizione di legge attuativa dell'art. 2 della legge costituzionale n. 2/1999, ove il tribunale volesse ritenere sufficientemente provata la attendibilita' della chiamata di correita' e gli elementi di riscontro. Ritiene il collegio che la questione prospettata sia rilevante poiche', preliminare alla valutazione probatoria e' la questione della possibilita' di prendere in considerazione le dichiarazioni del Magurno. E, comunque, salva una piu' approfondita valutazione probatoria, la chiamata di correita' unitamente considerata con gli elementi di riscontro, diversi da semplici dichiarazioni di soggetti che si siano avvalsi della facolta' di non rispondere, potrebbe essere tale da fondare l'accertamento della responsabilita' penale degli imputati. In sostanza, pervenuti al momento della decisione, il collegio, in applicazione delle norme transitorie, gia' citate, deve utilizzare le dichiarazioni del Magurno. Tanto basta perche' si debba ritenere processualmente rilevante la questione. Quanto alla fondatezza della questione si osserva quanto segue. In primo luogo occorre evidenziare come la questione prospettata dal difensore e' diversa da quella sottoposta al giudizio della Corte costituzionale e decisa dalla stessa Corte con ordinanza n. 439 del 25 ottobre 2000. Quella infatti riguardava la applicabilita' dei principia del "giusto processo" nel caso in cui le dichiarazioni fossero state acquisite successivamente alla riforma costituzionale, cosi' come risulta chiaramente dalla motivazione della Corte ed anche esplicitamente in un passaggio specifico: "... il decreto legge ... ha sancito la immediata operativita' dei principia stessi in tali procedimenti, fatte salve alcune regole speciali, relative segnatamente alla valutazione a fini di prova delle dichiarazioni gia' acquisite al fascicolo per il dibattimento: ipotesi, questa, che peraltro non ricorre nel giudizio a quo, pure gia' in corso alla data di entrata in vigore della legge di modifica costituzionale ... ". Il caso, invece, che qui ricorre e' proprio quello della applicabilita' della norma transitoria sul regime probatorio delle dichiarazioni predibattimentali acquisite prima della data di entrata in vigore della legge costituzionale. Si tratta propriamente di norma anche transitoria, e, non solo intertemporale, perche', riferendosi a situazioni processuali temporalmente individuate, prevede una disciplina intermedia rispetto a quella "nuova" e a quella "abrogata". Pertanto la questione non pare possa essere risolta mediante il principio di diritto indicato dalla Corte costituzionale con la ordinanza n. 439 del 2000: quello secondo cui, a seguito del disposto dell'art. 1, primo comma, del decreto-legge e legge di conversione citati, le regole del "giusto processo" si applicano ai procedimenti penali in corso al 7 gennaio 2000 "con forza di legge ordinaria", cosi' dovendosi escludere questioni di illegittimita' costituzionale e dovendosi risolvere mediante gli ordinari strumenti interpretativi e i criteri della successione nel tempo di leggi aventi lo stesso grado i casi di incompatibilita' o di discrasie tra le norme processuali preesistenti ed i principia dell'art. 111 della Costituzione. Cio' posto la questione di costituzionalita' puo' essere esaminata sotto due angoli visuali diversi, quello dell'art. 3 della Costituzione e quello dell'art. 2 della legge costituzionale n. 2 del 1999. Sotto il primo profilo il difensore ha sollevato dubbi di costituzionalita' perche' in analoghe situazioni processuali il regime della prova e' diverso (e si potrebbe aggiungere "notevolmente") in relazione ad un fatto processuale assolutamene casuale, quale e' quello che il verbale delle dichiarazioni predibattimentali del chiamante in correita', che non sia stato esaminato per sua libera scelta, sia stato acquisito prima o dopo il 7 gennaio 2000. Sotto il secondo profilo, invece, la incostituzionalita' della disposizione transitoria deriverebbe dall'avere il legislatore ordinario ecceduto dalla delega conferitagli dal legislatore costituzionale. Osserva subito il collegio che il primo profilo di incostituzionalita' pare manifestamente infondato poiche' nella successione di norme, siano esse previste da leggi ordinarie oppure da leggi di rango costituzionale, e' ineliminabile la diversa regolamentazione di casi analoghi: si tratta di una conseguenza ineluttabile dello stesso fenomeno della successione di leggi nel tempo e pertanto non puo' essere ravvisata alcuna violazione dei principia di cui all'art. 3 della Costituzione. A diverse conclusioni si deve pervenire sotto l'altro profilo, nel senso cioe' che non e' manifestamente infondata, a giudizio di questo collegio, la censura prospettata dal difensore. Non ignora il tribunale che la questione di illegittimita' costituzionale della disciplina transitoria e' stata respinta dalla sesta sezione della Corte di cassazione con la sentenza 11 maggio 2000, Francica; cosi' come non ignora che alcuni giudici di merito hanno investito la Corte costituzionale per la stessa questione sollevata dalla difesa in questo processo. Peraltro si deve rilevare come la questione risolta negativamente dal giudice di legittimita' riguardasse, non, il secondo comma, bensi' il quarto comma dell'art. 1 del decreto legge e legge di conversione citati e soprattutto che la soluzione cui e' pervenuta, pur autorevolmente la Corte, non sia appagante. Sotto il primo aspetto non pare identico il caso delle dichiarazioni acquisiste al fascicolo per il dibattimento e "gia' valutate" dal giudice di merito ai fini delle decisioni, di primo e secondo grado, per i quali e' prevista la applicazione delle disposizioni vigenti in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni stesse ed il caso che qui ricorre, quello della prima valutazione delle prove assunte. Pur se opinabile non pare infatti irrazionale prevedere uno "sbarramento" ai nuovi principia del "giusto processo" nei giudizi di legittimita', posto che in questi si tratta di controllare la esatta applicazione fatta dai giudici di merito delle disposizioni di legge sostanziali e processuali vigenti al tempo delle decisioni. Sotto il secondo profilo occorre, in primo luogo, rilevare come le argomentazioni della Corte nella sentenza citata siano contrastanti con quelle sviluppate in un noto precedente su analoga questione dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 25 febbraio 1998, Gerina): in quel caso, infatti, la Corte, a sezioni unite, pervenne ad una soluzione opposta proprio con riferimento alla applicazione di nuove disposizioni di legge processuali in materia di utilizzabilita' di prove nel giudizio di legittimita', nel senso, cioe', che non puo' ritenersi concluso il procedimento probatorio anche in quel giudizio perche' la inutilizzabilita' prevista dalla legge per un atto probatorio puo' e deve essere rilevata anche dalla Corte di cassazione. Ad analoghe conclusioni e' pervenuta in altri casi analoghi la Corte di cassazione, statuendo il principio secondo cui "qualora ... si verifichino innovazioni legislative, anche a seguito di pronunce di illegittimita' (ma non solo), in materia di utilizzabilita' o inutilizzabilita' della prova, il principio tempus regit actum deve essere riferito al momento della decisione e non a quello della acquisizione della prova, atteso che il divieto di uso, colpendo proprio l'idoneita' di questa a produrre risultati conoscitivi valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento, interviene allorche' il procedimento probatorio non ha ancora trovato esaurimento ..." (Cass. sez VI, 2 settembre 1998, n. 1472, Archesso). E' noto come, in parte, la dottrina abbia accolto sfavorevolmente le argomentazioni delle sezioni unite, sostenendo, invece, che il divieto di valutazione di una prova sia consequenziale ad un divieto di acquisizione e questo operi al momento della assunzione della prova con ogni ulteriore conseguenza nella ipotesi di leggi che regolino in modo diverso il regime della prova stessa. Ma sta il fatto che per l'autorevolezza delle sezioni unite e per la persuasivita' delle sue argomentazioni la questione non puo' ritenersi superata "tout court". Ed allora, dopo avere nuovamente evidenziato la innegabile diversita' che esiste tra la valutazione della prova nel giudizio di merito ed il limite del sindacato di legittimita' attribuito al giudice di legittimita', si deve, pur sinteticamente, rimeditare la questione. Da una parte (Cass. sez. VI cit.) si afferma che nel caso di successione di leggi che riguardano l'utilizzabilita' probatoria si deve fare riferimento al momento della assunzione della prova e, non, a quello della sua valutazione; che la nuova disciplina "del giusto processo" ed il principio del contraddittorio nella formazione della prova, in mancanza di una disciplina transitoria, non dovrebbe applicarsi nei processi con prove gia' assunte prima della riforma costituzionale; che conseguentemente la applicazione, pur parziale, dei principia costituzionali ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge costituzionale di riforma, prevista dalle disposizioni transitorie, si e' risolta per gli imputati in una situazione migliore di quella che si sarebbe verificata se nessuna norma transitoria fosse stata prevista. Se ne e' dedotto che la previsione della utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali acquisite per lettura non si porrebbe, secondo questa prospettazione, in contrasto, ne' con l'art. 3 della Costituzione, ne' con lo stesso art. 111 della Costituzione cosi' come sostituito. Il presupposto del ragionamento seguito dalla Corte di cassazione e' che il divieto posto dal quarto comma dell'art. 111 della Costituzione si concretizzi in un divieto di acquisizione probatoria e, non, in un criterio legale di valutazione: cosi' qualificato facilmente si perviene alla affermazione che nessuna violazione costituzionale si e' verificata per la utilizzazione di prove formate precedentemente al 7 gennaio 2000 anche se la valutazione della prova con la conseguente decisione venga fatta successivamente, nella vigenza del "nuovo" art. 111 della Costituzione. A queste argomentazioni si deve opporre che, in mancanza di una disciplina transitoria, dovendosi, ora, nella vigenza dell'art. 111 della Costituzione cosi' come sostituito, decidere sulla responsabilita' degli imputati Todaro e Ghibaudo, sarebbe stato ben difficile superare il chiaro disposto costituzionale, secondo cui, la colpevolezza dell'imputato non puo' essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per sua libera scelta, si e' sempre volontariamente sottratto all'esame dibattimentale. A prescindere dalle qualificazioni e distinzioni processuali, tra acquisizione, utilizzazione di atti probatori e relativi divieti e regole di valutazione, la norma costituzionale sembra chiaramente tesa ad un risultato, quello che l'accertamento di responsabilita' penale non possa essere fondato su un tale atto probatorio. La norma costituzionale, attesa la sua natura, non poteva operare distinzioni in termini strettamente processuali; viceversa esclude, comunque, un risultato di affermazione di penale responsabilita' sulla base di quel materiale probatorio. In mancanza di una disciplina transitoria, quindi, si sarebbe dovuto applicare il divieto il cui tempo di riferimento e' quello della decisione, non quello della formazione della prova. Come dire che il legislatore costituzionale, senza prendere posizione sullo strumento processuale e, forse, proprio, per escludere ogni questione che puo' essere innestata sulla qualificazione della inutilizzabilita', ha inteso porre un divieto al giudice, divieto che, in ogni caso, si proietta temporalmente al momento della decisione. Non si sarebbe, cioe', verificata una retroattivita' della norma costituzionale; bensi' si intendeva, comunque, evitare una ultrattivita' delle norme processuali preesistenti. Anche scendendo nel merito delle qualificazioni processuali sembra, poi, che il divieto costituzionale non possa risolversi in una regola di esclusione probatoria e che sia invece un criterio di valutazione probatoria. La inutilizzabilita' delle dichiarazioni di chi si sia sempre volontariamente sottratto all'esame nel dibattimento e' relativa, nel senso che sembra consentita la utilizzazione delle prove assunte con le stesse modalita' purche' esse siano favorevoli all'imputato. Si tratta di una discrasia che e' stata immediatamente rilevata anche criticamente, ma che resta nell'ordinamento costituzionale; con la conseguenza che il momento in cui si deve valutare la operativita' del divieto e' quello della decisione, quando e' possibile entrare nel merito delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni per distinguere cosi' quelle favorevoli alla tesi accusatoria e quelle favorevoli alla tesi difensiva. Non solo, ma la possibilita' che almeno fino alla chiusura della istruzione dibattimentale il p.m. possa provare la esistenza delle condizioni soggettive ed oggettive che consentono la utilizzazione piena di quelle dichiarazioni, diverse dalla irripetibilita' per ragioni obbiettive (provata condotta illecita ai danni del dichiarante, per violenza, minaccia ed altro), comporta la necessita' che il verbale usato per le contestazioni debba comunque essere acquisito (senza quindi necessita' di ulteriore lettura), non potendosi dire conclusa la verifica delle condizioni che escludono o consentono la valutazione di quella prova. Anzi, a ben vedere, solo con la decisione puo' essere sciolta la questione della sua utilizzazione giacche' solo allora il giudice puo' ritenere provate o non provate le condizioni soggettive ed oggettive che consentono la ammissione della prova tra le fonti processuali della conoscenza del giudice. Cio' sposta nel tempo il momento della verifica di utilizzabilita' dal momento della formazione della prova al momento della decisione. Ne' si puo' opporre fondatamente che la lettera della disposizione costituzionale si riferisce alla "prova" della colpevolezza cosi' indicando gia' una preferenza per il divieto di acquisizione probatoria. Infatti, a giudizio di questo collegio, poiche' gia' la prima parte del quarto comma dell'art. 111 della Costituzione pone il principio del contraddittorio nella formazione della prova e quindi riguarda il momento genetico della prova, con l'ulteriore disposizione sembra si sia voluto escludere in modo radicale ogni possibilita' di elusione del principio del contraddittorio da parte del legislatore ordinario con un divieto che riguarda, non il momento della formazione della prova, bensi' quello della decisione. E del resto la genesi storica della riforma costituzionale, come recupero delle tesi accusatorie pure rispetto alle travagliate vicende dell'art. 513 c.p.p. e' nota e depone in questo senso. Se queste argomentazioni sono fondate ne consegue che la disciplina transitoria deve essere confrontata con le premesse di una naturale applicabilita' del principio previsto dal quando comma, ultima parte, dell'art. 111 della Costituzione (e quinto comma, con le relative eccezioni) al caso di specie. Se le premesse sono corrette anche il significato della delega al legislatore ordinario deve essere ricostruita in modo diverso da come il legislatore la ha intesa ed attuata. La legge costituzionale ha quindi, genericamente, delegato al legislatore ordinario la concreta regolamentazione della fase transitoria in relazione a tutti i principia del "nuovo" art. 111 della Costituzione. Si tratta di valutare se, proprio con riferimento a quello del quarto comma, il legislatore costituzionale abbia inteso consentire una soluzione restrittiva al suo naturale ambito temporale di applicazione. Il legislatore ordinario, in forza della delega, ha poi previsto in sostanza che tutti i principi' (o disposizioni) costituzionali, che pure riguardavano sicuramente atti, facolta' e diritti processuali diversi da quelli direttamente connessi con la utilizzazione di un certo materiale probatorio, si applichino anche ai procedimenti in corso; ha introdotto una eccezione proprio in relazione al divieto o esclusione probatoria di cui stiamo trattando: in relazione a questo, da un lato, si e' ammessa la piena utilizzabilita' a fini decisori delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, cosi' rendendo, secondo la prospettazione accolta da questo collegio, inoperante il divieto di utilizzazione del materiale probatorio formatosi fuori dal contraddittorio delle parti e, dall'altro lato, sono stati limitati i casi della "corroboration" escludendo gli elementi di prova assunti o formati con le stesse modalita'. In definitiva per gli altri principi' il legislatore ha previsto una applicazione piena ai procedimenti in corso; per quello piu' significativo, anche in relazione alle ragioni storiche della riforma costituzionale del "giusto processo", ha previsto una sostanziale disapplicazione, temperata solo da un maggior rigore per gli elementi di riscontro. In sintesi quindi i profili di incostituzionalia' sono due. In primo luogo, la forza del divieto di utilizzazione probatoria era per sua natura tale da escludere una delega sul punto perche' qualunque norma transitoria avrebbe finito con il consentire una sorta di ultrattivita' della disciplina ordinaria previgente. In secondo luogo, anche diversamente opinando sul primo profilo, la regolamentazione della applicazione del principio si e' risolta in una sua sostanziale disapplicazione, in evidente contrasto con lo scopo della delega che era pur sempre quella di garantirne la applicazione anche ai procedimenti penali in corso. E' pur vero che, risolta negativamente la prima questione, la "regolamentazione transitoria" potrebbe essere intesa come adozione di una ragionevole compromesso tra regimi di prova antitetici, ma anche in questa ottica cosi' non e' avvenuto: se una coerenza con quella finalita' puo' essere ravvisata nella distinzione drastica tra giudizio di legittimita' e giudizio di merito con la previsione che nel primo si applichino le disposizioni vigenti "in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni (di merito)", viceversa si deve legittimamente dubitare che una qualche coerenza sia stata rispettata con la disposizione di cui si tratta. Ne consegue che la questione deve essere rimessa al giudizio della Corte costituzionale perche' accerti, quindi, se l'art. 1, comma secondo, del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2, convertito con modificazioni con la legge 25 febbraio 2000, n. 35, sia illegittimo per violazione dell'art. 111, quarto comma, seconda parte, della Costituzione e per violazione dell'art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2.